Il Teatro Zazzera, i chiodi e la luna di Astolfo
Cari amici
lavoratori del Teatro Zazzera, sono Felice che vi scrive con la leggerezza dei
senza stipendio, che voi potete ben capire, anche se un pochino zavorrati di
incavolatura nelle tasche.
Certo è un
mistero come il Teatro Zazzera a Palermo ha sempre la crisi, ma è un fatto
che ormai nella politica si chiacchiera penzando che il teatro si fa coi
fantasimi e non coi personi in carne e ossa. Molti malignano e pochi ci hanno
qualche idea sensata o amorosa. E a chi il Teatro ha provato a farlo più
allegro, non si sa perché, ci hanno messo il sapone sotto le scarpe perché
scivoli via alle prime sbrizziate d’agosto.
Cari amici
lavoratori, vi scrivo col bel ricordo delle cose fatte insieme nel trapassato e
nel recente. Ogni tanto ho venuto a fare le pulizie e sono stati bei momenti. E
quante ne abbiamo visto! Buone e cattive. Ci sono stati periodi di pruvulazzo
ostinato che non ci potevi mettere il naso, di scatarrate incrostate nei muri,
di gabinetti intasati, di porte bloccate, spunnate, di velluti ingrasciati, di
parole tischitoschi o volgari, di raccomandati senz’arteneparte, ma anche di
mestieri fatti a regola d'arte, di chiodi aggrizzati, di recite acrobatiche, di
lacrime oneste e candeggina aromatica, di sale piene di gente con gli occhi
stupiti.
Fra un
cannavazzo e l’altro ho imparato che un teatro è fatto di muri, stucchi, legni
ma anche di genti che montano e smontano e hanno un segreto nei mani, di
poeti che passano e lasciano un segno sui muri, di matti che gridano all’aria,
di cose che non si possono dire, di tanto sudore, di persone che vogliono
crescere, di quelli che ci crepano pure. Ho capito che un teatro cià bisogno di
tempo, di pazienza, come una scuola che è fatta per crescere e non vende buatte
al mercato. E anche se io per le pulizie ci sono passato a volo di scopa, ho
imparato che un teatro ha bisogno di cure speciali. Ci devi levare la polvere
ma senza grattargliela tutta, perché lì in mezzo si conserva qualche parola che
servirà ancora domani. Fra i chiodi e le assi, e sotto i poltrone, ci restano
segni, euri, forcini, pizzini, penzieri, cose inutili e cose priziose.
S’impigliano la ricordanza dei sogni e i penzieri scordati di una città, che
per quanto fradicia sia, cià le sue dolcezze e le sue fantasie a saperla
ascoltare. Cose che qui si raccolgono come sulla luna di Astolfo, che il
professore Lo Pinto ci ha fatto leggere alla scuola serale e che ci abbiamo
eseguito pure il tema di classe.
Allora, io penzo, un teatro non puoi trattarlo come la tualet della
stazione e lavarlo con la pompa a pressione. E poi non puoi chiedergli di astutare
la luce se gli hai tagliato già la corrente ed è più scuro di menzanotte, non
puoi spremerlo come la macchinetta di cocacola della parrocchia che con due
cazzotti e una moneta fasulla sputa un chinotto e pure le noccioline tostate a
mitraglia. Un teatro cià bisogno
di gente che lo vuole bene, che cià coraggio, che invita tutti a entrarci. Cià
bisogno di amici che lo vengono a guardare di dentro, nelle palle degli
occhi.
Nascosto dietro le tele, appoggiato al mio mocio, ho visto quanta fatica c’è dietro. Quanti miraggi mi ha lasciato nella testa, anche se con qualche capello bianco di più! Ma forse anche al signor fondatore Zazzera il capello che dice era biondo gli si è tramutato al bianco col tempo.
E sono Felice che vi saluta con l’augurio che questo Teatro resti sempre più aperto. Magari con qualche fantasma simpatico per giocarci a briscola sotto i tavoloni del palco e i suoi lavoratori di chiodo, di penna, di arte, di scopa che ci abballano vivi di sopra. Ciao.
Nascosto dietro le tele, appoggiato al mio mocio, ho visto quanta fatica c’è dietro. Quanti miraggi mi ha lasciato nella testa, anche se con qualche capello bianco di più! Ma forse anche al signor fondatore Zazzera il capello che dice era biondo gli si è tramutato al bianco col tempo.
E sono Felice che vi saluta con l’augurio che questo Teatro resti sempre più aperto. Magari con qualche fantasma simpatico per giocarci a briscola sotto i tavoloni del palco e i suoi lavoratori di chiodo, di penna, di arte, di scopa che ci abballano vivi di sopra. Ciao.
Felice Sghimbescio.
Come al solito Felice ci azzecca sempre con l'arte della sua "semplicità"
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